IL TRIBUNALE DI LECCE 
 
    Il Giudice per le indagini  preliminari,  dott.  Giovanni  Gallo,
letti gli atti del procedimento a carico di M.F., nato a  Taranto  il
24 aprile 1971; 
    Indagato Capo A.c. del delitto di cui  agli  articoli  81  cpv  e
416-bis c.p., perche', pur non  essendo  inserito  organicamente  nel
sodalizio  denominato  «clan  Taurino»  e,  tuttavia,  agendo   nella
consapevolezza della rilevanza causale dell'apporto da  egli  reso  e
della   finalizzazione   della   propria   attivita',   agli    scopi
dell'associazione medesima, in tempi diversi, metteva a  disposizione
del clan le proprie cognizioni tecniche ed i propri apparati,  idonei
all'individuazione,  per  la  successiva  rimozione,   di   eventuali
microspie, apparati di localizzazione satellitare (GPS) e  telecamere
posizionate dalla P.G. nell'ambito del presente procedimento  penale,
allo scopo di captare le conversazioni tra presenti nei luoghi ove  i
sodali  erano  soliti  incontrarsi  e   discutere   delle   strategie
organizzative della consorteria mafiosa,  con  la  consapevolezza  di
cosi'  contribuire  alla  salvaguardia  del   sodalizio   da   azioni
giudiziarie e,  conseguentemente,  cosi'  consentendo  alla  predetta
associazione di mantenersi in vita, onde poter  conseguire  i  propri
scopi. 
    In Taranto nei mesi di settembre e ottobre 2011, decidendo  sulla
istanza con la quale il difensore di M.F. ha chiesto la  sostituzione
della misura in atto della custodia cautelare in carcere  con  quella
degli arresti domiciliari; 
 
                            O s s e r v a 
 
    Ritiene questo Giudice di sollevare, in riferimento agli articoli
3,  13  e  27,  secondo  comma,  della  Costituzione,  questione   di
legittimita' costituzionale dell'art. 275, comma  3,  del  codice  di
procedura  penale  nella  parte  in  cui  prescrivendo  che   «quando
sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto  di  cui
all'art. 416-bis c.p. e' applicata la misura cautelare della custodia
in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti  che
non sussistono esigenze cautelari, non  fa  salva  l'ipotesi  in  cui
siano acquisiti elementi specifici, in relazione  al  caso  concreto,
dai  quali  risulti  che  le  esigenze   cautelari   possono   essere
soddisfatte con altre misure, e cio' in particolar modo in  relazione
alla figura del concorso esterno in associazione di tipo mafioso. 
    In primis va rilevato che la proposta questione  di  legittimita'
costituzionale e' rilevante nel presente procedimento,  tenuto  conto
che il M.F. e' sottoposto alla misura carceraria da circa sei mesi e,
sebbene si debba ritenere che sussistono ancora le esigenze cautelari
in considerazione della  attuale  operativita'  dell'associazione  di
riferimento nel centro storico di Taranto e dei legami che l'indagato
ha dimostrato avere con i membri del clan, la peculiarita' del  ruolo
di concorrente  esterno  nell'associazione  mafiosa  rivestita  dallo
stesso impone di ritenere attualmente  adeguata  a  salvaguardare  le
esigenze cautelari  da  tutelare  la  misura  gradata  degli  arresti
domiciliari.  Sul  punto  va  sottolineato  che  il  M.F.,   soggetto
incensurato e non appartenente al  gruppo  malavitoso  contestato  al
capo A.a della rubrica, risulta dagli atti aver messo a  disposizione
di tale gruppo le proprie cognizioni tecniche ed i  propri  apparati,
idonei all'individuazione, per la successiva rimozione, di  eventuali
microspie,  apparati  di  localizzazione  satellitare  e   telecamere
posizionate dalla P.G.  nel  centro  storico  di  Taranto.  Anche  se
soggetto esterno alla associazione, il M.F. ha, comunque,  dimostrato
di avere dei contatti con i vertici del clan, in favore dei quali  ha
posto in essere le condotte contestate,  circostanza  che  impone  di
ritenere ancora attuali le esigenze cautelari che hanno  giustificato
l'applicazione della misura in atto; proprio  il  ruolo  di  soggetto
«esterno» alla associazione criminale rivestita dal M.F. invero, deve
far  ritenere  attualmente  la   misura   cautelare   degli   arresti
domiciliari adeguata a prevenire il pericolo di reiterazione di fatti
di reato del tipo di quali si procede, dovendosi  escludere  che  una
volta ristretto  nella  propria  abitazione  il  M.F.  possa  mettere
nuovamente a disposizione le proprie capacita' tecniche in favore del
gruppo criminale di riferimento. 
    Tuttavia,  partendo  dalla  sussistenza  attuale  delle  esigenze
cautelari, l'applicazione al caso concreto dell'art. 275, comma 3 del
codice di procedura penale,  che  prescrive  che  «quando  sussistono
gravi indizi di colpevolezza in ordine al  delitto  di  cui  all'art.
416-bis c.p. e' applicata  la  misura  cautelare  della  custodia  in
carcere», impone il mantenimento della misura  cautelare  in  atto  a
carico di M.F. 
    Va affermato, in secondo luogo, che il presente procedimento  non
puo'  essere  definito  indipendentemente  dalla  risoluzione   della
prospettata questione di legittimita' costituzionale. 
    Sul punto preliminarmente, va ribadito che, cosi' come  affermato
dalla Corte costituzionale, deve escludersi  la  praticabilita',  nel
caso in esame,  di  un'interpretazione  costituzionalmente  orientata
della norma sospettata di illegittimita' costituzionale. Infatti,  la
Corte ha piu' volte affermato che «l'univoco tenore della norma segna
il confine in presenza del quale  il  tentativo  interpretativo  deve
cedere  il  passo  al  sindacato  di   legittimita'   costituzionale»
(sentenza n. 78 del 2012) e, a proposito della  presunzione  assoluta
dettata dall'art. 275, comma 3, cod. proc. pen., ha gia' ritenuto che
«le parziali  declaratorie  di  illegittimita'  costituzionale  della
norma impugnata, relative esclusivamente ai reati oggetto delle varie
pronunce, non si possono estendere alle altre  fattispecie  criminose
ivi disciplinate (sentenza n. 110 del 2012). 
    Fatta questa premessa va detto che la Corte  costituzionale,  con
l'ordinanza n. 450 del 1995 ha statuito la piena compatibilita' della
richiamata presunzione con i principi costituzionali,  rilevando  che
la  scelta  del  tipo   di   misura   non   implica   necessariamente
l'attribuzione al giudice di un potere di apprezzamento in  concreto,
perche' ben  puo'  essere  oggetto  di  una  valutazione  in  termini
generali del legislatore, «nel rispetto  della  ragionevolezza  della
scelta  e  del  corretto  bilanciamento  dei  valori   costituzionali
coinvolti»;  il  Giudice  delle  leggi  ha   sostenuto   che   ricade
nell'ambito della discrezionalita' legislativa  l'individuazione  dei
punti di equilibrio tra diverse esigenze, e in particolare tra quella
della minore possibile restrizione della liberta' personale e  quella
della tutela degli interessi costituzionali presidiati attraverso  la
previsione degli strumenti cautelari. Muovendo da tali  premesse,  si
e' ritenuto che la predeterminazione in linea generale dell'area  dei
delitti  di   criminalita'   organizzata   di   tipo   mafioso,   per
l'operativita'  della  presunzione  di  adeguatezza  della   custodia
cautelare  carceraria,  rendesse-manifesta  la  non  irragionevolezza
dell'esercizio  della   discrezionalita'   legislativa,   atteso   il
coefficiente  di  pericolosita'  per  le  condizioni  di  base  della
convivenza e della sicurezza collettiva che  agli  illeciti  di  quel
genere e' connaturato: non puo', infatti,  dirsi  che  sia  soluzione
costituzionalmente  obbligata  l'affidamento  sempre  e  comunque  al
giudice della fissazione del punto di  equilibrio  e  contemperamento
tra il sacrificio della liberta' personale e  gli  opposti  interessi
collettivi, anch'essi di rilievo costituzionale. 
    La deroga, costituita  dalle  presunzioni  di  sussistenza  delle
esigenze cautelari e di adeguatezza della  misura  carceraria  per  i
delitti di mafia in senso stretto, ha in seguito  superato  anche  il
vaglio della  Corte  Europea  dei  diritti  dell'uomo,  la  quale  ha
ritenuto  che   la   disciplina   derogatoria   in   esame   appariva
giustificabile alla luce «della natura specifica del  fenomeno  della
criminalita' organizzata e soprattutto di quella di stampo  mafioso»,
e segnatamente  in  considerazione  del  fatto  che  la  carcerazione
provvisoria delle persone accusate del delitto in questione «tende  a
tagliare i legami esistenti tra le  persone  interessate  e  il  loro
ambito criminale di origine, al fine di minimizzare  il  rischio  che
esse  mantengano  contatti   personali   con   le   strutture   delle
organizzazioni criminali e possano commettere nel frattempo  delitti»
(sentenza 6 novembre 2003, Pantano c. Italia). 
    Ebbene,  le  conclusioni  alle   quali   e'   giunta   la   Corte
costituzionale con l'ordinanza n. 450 del 1995, che statuiva la piena
compatibilita'  della  presunzione  in  argomento  con   i   principi
costituzionali in relazione all'art.  416-bis,  a  parere  di  questo
Giudice meritano una rimeditazione  alla  luce  della  pluralita'  di
interventi attraverso i  quali  la  stessa  Corte  costituzionale  ha
recentemente ridisegnato  i  confini  delle  presunzioni  in  materia
cautelare (il cui ambito applicativo era stato ampliato, ben oltre il
settore della criminalita' mafiosa, dall'intervento  normativo  sulla
sicurezza pubblica, vale a dire dal decreto-legge  n.  11  del  2009,
convertito, con modifiche, con legge n. 38 del 2009). 
    In particolare la Corte costituzionale con sentenza  n.  231  del
2011 ha dichiarato la illegittimita'  dell'art.  275,  comma  3,  del
codice  di  rito,  nella  parte   concernente   il   riferimento   ai
procedimenti per il delitto di cui all'art.  74  d.P.R.  n.  309  del
1990. La Corte ha  ritenuto  che  per  tale  delitto  la  presunzione
assoluta di adeguatezza  della  sola  custodia  carceraria  e'  stata
considerata non rispondente a un dato  di  esperienza  generalizzato,
ricollegabile   alla   struttura   stessa   e    alle    connotazioni
criminologiche della figura criminosa, pur  se  essa  presuppone  uno
stabile vincolo di appartenenza a un sodalizio  criminoso.  Con  tale
sentenza  e'  stato  precisato  che  il   delitto   di   associazione
finalizzata al traffico di  sostanze  stupefacenti  o  psicotrope  si
concretizza in una forma speciale del  delitto  di  associazione  per
delinquere, qualificata unicamente dalla natura dei  reati-fine,  che
non postula necessariamente la creazione di una struttura complessa e
gerarchicamente   ordinata,   essendo   sufficiente   una   qualunque
organizzazione, anche rudimentale, di attivita' personali e di  mezzi
economici, benche' semplici ed elementari. Detta figura criminosa, ha
osservato ancora la Corte  costituzionale,  si  presta,  pertanto,  a
qualificare penalmente fatti e situazioni in concreto i piu'  diversi
ed eterogenei, si' che non  e'  possibile  enucleare  una  regola  di
esperienza, ricollegabile ragionevolmente  a  tutte  le  connotazioni
criminologiche del  fenomeno,  secondo  cui  la  custodia  carceraria
sarebbe  l'unico  strumento  idoneo  a   fronteggiare   le   esigenze
cautelari. 
    La Corte costituzionale, con la sentenza  n.  110  del  2012,  e'
intervenuta   con   una   ulteriore   (parziale)   declaratoria    di
incostituzionalita' dell'art. 275, comma  3,  cod.  proc.  pen.,  con
specifico riferimento alla fattispecie di cui all'art. 416 cod.  pen.
realizzata allo scopo di commettere i delitti  previsti  dagli  artt.
473  e  474  dello  stesso  codice,  facendo  cosi'  venir  meno   la
presunzione assoluta di adeguatezza della  custodia  in  carcere  per
tale reato associativo. 
    Nel riprendere le argomentazioni delle  precedenti  pronunce,  la
Corte ha significativamente precisato che anche  per  la  fattispecie
presa in esame puo' dirsi che mancano quelle  connotazioni  normative
(forza  intimidatrice  del  vincolo  associativo  e   condizione   di
assoggettamento ed omerta') proprie dell'associazione di tipo mafioso
e in grado di fornire una congrua base  statistica  alla  presunzione
assoluta di adeguatezza. Con  tale  decisione,  la  stessa  Corte  ha
definito «particolarmente significativa» la propria sentenza  n.  231
del 2011, con la quale e' stata dichiarata illegittima la presunzione
in argomento in riferimento ad una fattispecie associativa  (art.  74
del d.P.R. n. 309 del 1990), ed ha evidenziato che nell'occasione  e'
stato in particolare sottolineato che il delitto di  associazione  di
tipo mafioso e' «normativamente connotato - di riflesso  ad  un  dato
empirico-sociologico - come quello  in  cui  il  vincolo  associativo
esprime una forza di intimidazione e condizioni di assoggettamento  e
di omerta', che da quella derivano, per conseguire  determinati  fini
illeciti. Caratteristica essenziale e' proprio tale specificita'  del
vincolo, che, sul piano  concreto,  implica  ed  e'  suscettibile  di
produrre, da un lato,  una  solida  e  permanente  adesione  tra  gli
associati,  una  rigida  organizzazione  gerarchica,  una   rete   di
collegamenti  e  un  radicamento  territoriale  e,  dall'altro,   una
diffusivita' dei  risultati  illeciti,  a  sua  volta  produttiva  di
accrescimento della forza intimidatrice del sodalizio criminoso. Sono
tali peculiari connotazioni a fornire una congrua  «base  statistica»
alla presunzione considerata,  rendendo  ragionevole  la  convinzione
che, nella generalita' dei casi, le esigenze cautelari derivanti  dal
delitto in questione non possano venire adeguatamente fronteggiate se
non con la misura carceraria. 
    Come si vede la Suprema Corte  ha  valorizzato  nei  casi  appena
descritti la circostanza  che  oggetto  delle  pronunce  erano  delle
associazioni a delinquere in  relazione  alle  quali  il  vincolo  di
appartenenza alla organizzazione malavitosa non poteva  ritenersi  di
per se'  solo  idoneo  a  giustificare  la  presunzione  assoluta  di
adeguatezza della piu' affittiva misura cautelare, in  assenza  delle
altre  connotazioni  specifiche  del  legame  che  caratterizza   gli
appartenenti ad un'associazione di tipo mafioso. 
    Per quel che riguarda il caso in  oggetto,  appare  assolutamente
rilevante, inoltre, la motivazione della sentenza n. 57 del 2013  con
la quale la  Corte  costituzionale  ha  dichiarato  «l'illegittimita'
costituzionale dell'art. 275, comma 3, secondo periodo, del codice di
procedura  penale,  come  modificato  dall'art.  2,  comma   1,   del
decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in  materia  di
sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonche'  in
tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge
23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui - nel prevedere che, quando
sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti commessi
avvalendosi delle condizioni previste dall'art.  416-bis  del  codice
penale ovvero al fine di  agevolare  l'attivita'  delle  associazioni
previste dallo stesso articolo, e' applicata la custodia cautelare in
carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non
sussistono esigenze cautelari - non fa salva, altresi', l'ipotesi  in
cui  siano  acquisiti  elementi  specifici,  in  relazione  al   caso
concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono  essere
soddisfatte con altre misure». 
    Nella motivazione della sentenza si legge che «la  congrua  "base
statistica"   della   presunzione   in   questione    e'    collegata
all'appartenenza ad associazioni di tipo mafioso»  (sentenza  n.  265
del 2010) e, pertanto, «una fattispecie che, anche se collocata in un
contesto   mafioso,   non   presupponga   necessariamente    siffatta
"appartenenza" non assicura alla presunzione assoluta di  adeguatezza
della custodia cautelare  in  carcere  un  fondamento  giustificativo
costituzionalmente valido»; la Corte ha, quindi, affermato  che  «...
la  finalizzazione  della  condotta  criminosa  all'agevolazione   di
un'associazione mafiosa non  costituisce  una  condotta  equiparabile
necessariamente,  ai  fini  della  presunzione  in  questione,   alla
partecipazione all'associazione, ed e' a questa partecipazione che e'
collegato  il  dato   empirico,   ripetutamente   constatato,   della
inidoneita' del processo, e delle stesse misure cautelari, a recidere
il vincolo associativo e a  far  venir  meno  la  connessa  attivita'
collaborativa,  sicche',  una  volta   riconosciuta   la   perdurante
pericolosita' dell'indagato  o  dell'imputato  del  delitto  previsto
dall'art. 416-bis cod. pen.,  e'  legittimo  presumere  che  solo  la
custodia in carcere sia  idonea  a  contrastarla  efficacemente».  Ne
consegue che la presunzione assoluta sulla quale fa  leva  il  regime
cautelare speciale «non risponda, con riferimento ai delitti commessi
avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 916-bis cod.  pen.  o
al fine di agevolare le attivita' delle associazioni  previste  dallo
stesso  articolo,  a  dati  di  esperienza   generalizzati,   essendo
"agevole"  formulare  ipotesi  di  accadimenti  reali  contrari  alla
generalizzazione posta a base della presunzione stessa.  Infatti,  la
possibile estraneita' dell'autore di tali delitti  a  un'associazione
di tipo mafioso fa escludere che si sia  sempre  in  presenza  di  un
"reato che implichi  o  presupponga  necessariamente  un  vincolo  di
appartenenza permanente  a  un  sodalizio  criminoso  con  accentuate
caratteristiche di pericolosita' - per  radicamento  nel  territorio,
intensita' dei collegamenti personali e forza intimidatrice - vincolo
che solo la misura piu' severa risulterebbe,  nella  generalita'  dei
casi, in grado di interrompere» (sentenza n. 164 del 2011). Se,  come
si e' visto,  la  congrua  "base  statistica"  della  presunzione  in
questione e' collegata  all'«appartenenza  ad  associazioni  di  tipo
mafioso» (sentenza n. 265 del 2010), una fattispecie  che,  anche  se
collocata in un contesto  mafioso,  non  presupponga  necessariamente
siffatta "appartenenza" non assicura  alla  presunzione  assoluta  di
adeguatezza  della  custodia  cautelare  in  carcere  un   fondamento
giustificativo costituzionalmente valido»... 
    Fatte queste premesse va approfondita la figura  del  concorrente
esterno nel delitto di cui all'art. 416-bis c.p. 
    Senza riportare la complessa evoluzione giurisprudenziale che  ha
condotto  al  riconoscimento  della  figura  del   concorso   esterno
nell'associazione  mafiosa,  appare  rilevante  in  questa  sede   la
pacifica affermazione secondo la quale  ricorre  la  «partecipazione»
nella associazione quando un soggetto chiede di entrare a  far  parte
di un'organizzazione criminale condividendone le  finalita'  e  viene
accettato come  socio  della  stessa,  mentre  si  avrebbe  «concorso
esterno  in  reato  associativo»  quando,  non  essendosi  verificato
ingresso    riconosciuto    nell'associazione,     taluno     apporti
consapevolmente un contributo apprezzabile se non  al  prolungamento,
quantomeno al consolidamento o al mantenimento del sodalizio stesso. 
    Piu'  precisamente,  la  Corte  di  Cassazione  ha  affermato  la
configurabilita' della figura del  concorso  esterno  «in  capo  alla
persona che, priva dell'affectio  societatis  e  non  inserita  nella
struttura  organizzativa  del  sodalizio,  fornisce   un   contributo
concreto,  specifico,   consapevole   e   volontario,   a   carattere
indifferentemente   occasionale   o   continuativo,   purche'   detto
contributo  abbia  un'effettiva  rilevanza  causale  ai  fini   della
conservazione o del rafforzamento dell'associazione e l'agente se  ne
rappresenti,  nella  forma  del  dolo  diretto,  l'utilita'  per   la
realizzazione, anche parziale, del programma criminoso... Partecipe e
concorrente esterno recano  entrambi  un  contributo  eziologicamente
apprezzabile alla vita associativa ed in questo accostabile finalismo
delle condotte consiste il dato che  accomuna  le  figure  le  quali,
invece, tornano  a  distinguersi  perche'  il  primo  e'  stabilmente
incardinato nella struttura  associativa  con  determinati,  continui
compiti anche per settore di competenza, mentre il secondo difetta di
questo inserimento strutturale. (vedi Cass. C s.u. 30  ottobre  2002,
Carnevale). 
    Va rimarcata in questa sede  la  sostanziale  differenza  tra  il
soggetto che riveste il ruolo di partecipe nella associazione mafiosa
e colui che e' concorrente esterno, il quale ultimo non  e'  inserito
nella struttura organizzativa del sodalizio ma «si limita» a  fornire
un contributo concreto,  specifico,  consapevole  e  volontario  alla
conservazione o al  rafforzamento  dell'associazione  criminale.  Del
resto, tornando al  caso  concreto,  appare  evidente  che  il  ruolo
rivestito da M.F. deve  essere  considerato  del  tutto  distinto  da
quello dei partecipi all'associazione criminale; il  M.F.  certamente
non e' inserito nel gruppo associato e  non  ha  commesso  reati-fine
nell'interesse  dell'associazione,  in  quanto  lo   stesso   si   e'
«limitato» a disposizione del clan le proprie cognizioni tecniche  ed
i propri apparati con  il  fine  di  rimuovere  eventuali  microspie,
apparati di localizzazione satellitare (GPS) e telecamere posizionate
dalla P.G. nel centro storico di Taranto. 
    L'insieme  di  tali  considerazioni   impone   di   rivedere   le
conclusioni alle quali e'  giunta  la  Corte  costituzionale  con  la
citata  ordinanza  n.  450  del  1995,  che  ha  statuito  la   piena
compatibilita'  della  presunzione  in  argomento  con   i   principi
costituzionali in relazione all'art. 416-bis c.p.,  alla  luce  anche
della evoluzione giurisprudenziale in tema  di  concorso  esterno  in
associazione mafiosa. 
    A parere di questo Giudice, utilizzando  le  parole  della  Corte
costituzionale (sentenza  n.  231  del  2011  che  ha  dichiarato  la
illegittimita' dell'art. 275, comma 3,  del  codice  di  rito,  nella
parte concernente il riferimento ai procedimenti per  il  delitto  di
cui all'art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990), anche  nell'alveo  dell'art.
416-bis c.p. e' possibile «qualificare penalmente fatti e  situazioni
in concreto i piu' diversi ed eterogenei, si' che  non  e'  possibile
enucleare una regola di esperienza, ricollegabile  ragionevolmente  a
tutte le connotazioni criminologiche del  fenomeno,  secondo  cui  la
custodia carceraria sarebbe l'unico strumento idoneo  a  fronteggiare
le esigenze cautelari». 
    Del resto, la posizione del concorrente esterno (e in particolare
quella del M.F.) appare essere con evidenza sovrapponibile per  tanti
motivi a quella di colui che pone  in  essere  un  reato  qualificato
dall'aggravante di cui all'art. 7 D.L. n. 152/91, con la finalita' di
agevolare l'associazione  mafiosa:  in  entrambi  i  casi  vi  e'  un
soggetto che, senza appartenere al gruppo mafioso, pone in essere una
condotta che ha quale finalita' quella  di  agevolare  l'associazione
mafiosa. 
    E, allora, proprio rispetto alla figura del  concorrente  esterno
puo' ripetersi quanto affermato dalla Corte costituzionale proprio in
tema di art. 7 D.L. n. 152/91, nella motivazione della  sopra  citata
sentenza n. 57 del  2013:  se  e'  vero  che  la  «la  congrua  "base
statistica"   della   presunzione   in   questione    e'    collegata
all'appartenenza ad associazioni di tipo mafioso (sentenza n. 265 del
2010), una  fattispecie  che,  anche  se  collocata  in  un  contesto
mafioso, non presupponga necessariamente siffatta "appartenenza"; non
assicura alla presunzione  assoluta  di  adeguatezza  della  custodia
cautelare in carcere un fondamento giustificativo  costituzionalmente
valido»; e, ancora, si puo' affermare che «la  possibile  estraneita'
dell'autore di tali delitti a  un'associazione  di  tipo  mafioso  fa
escludere che si sia sempre in presenza di un reato  che  implichi  o
presupponga necessariamente un vincolo di appartenenza  permanente  a
un   sodalizio   criminoso   con   accentuate   caratteristiche    di
pericolosita'  -  per  radicamento  nel  territorio,  intensita'  dei
collegamenti personali e forza intimidatrice - vincolo  che  solo  la
misura piu' severa risulterebbe, nella generalita' dei casi, in grado
di interrompere». 
    Le  affermazioni  della  Corte  costituzionale  sopra   riportate
possono  riferirsi  senz'altro  anche  alla  figura  del  concorrente
esterno  in  associazione  mafiosa,  soggetto  che,  si  ripete,  non
«appartiene» all'associazione  e,  pertanto,  non  e'  legato  da  un
vincolo permanente con il gruppo criminale tale da giustificare  quel
giudizio  di  pericolosita'   («per   radicamento   nel   territorio,
intensita' dei collegamenti personali  e  forza  intimidatrice»)  che
impone,  secondo  il   ragionamento   della   Corte,   l'applicazione
necessaria della misura carceraria. 
    In ultimo, va segnalato che  recentemente  la  Suprema  Corte  di
Cassazione ha ribadito che «diversa e' la valutazione che deve essere
compiuta nell'ambito operativo della presunzione  di  cui  al  citato
art. 275 comma 3 c.p.p. in riferimento alla posizione del concorrente
esterno nel reato associativo, nel senso  che  gli  elementi  che  si
richiedono per superare  la  presunzione  iuris  tantum  non  possono
coincidere con quelli del partecipe. In quest'ultimo caso  vi  e'  un
affectio societatis da rescindere, che non caratterizza  il  rapporto
che lega il semplice concorrente all'associazione, per  il  quale  la
dissociazione non puo' essere considerata un  elemento  in  grado  di
superare la presunzione stessa. Infatti, quale che  sia  il  tipo  di
relazione che lega il concorrente esterno al sodalizio, sia esso  una
relazione che  si  manifesta  con  condotte  occasionali  ovvero  con
contributi sintomatici di una piu' stretta vicinanza al gruppo,  deve
comunque    riconoscersi    che     l'indagato     resta     estraneo
all'organizzazione, per cui diversi devono essere gli elementi idonei
a superare  la  presunzione  di  pericolosita'.  In  particolare,  si
trattera'  di  elementi  diretti  a  sostenere   l'impossibilita'   o
l'elevata improbabilita' che  il  concorrente  esterno  possa  ancora
fornire un contributo alla cosca,  ovvero  volti  ad  evidenziare  il
venir meno degli interessi comuni con l'associazione  o,  ancora,  la
perdita di quegli strumenti che  assicuravano  di  poter  contribuire
alla sopravvivenza del gruppo criminale». 
    Partendo da tale presupposto, i  giudici  di  legittimita'  hanno
concluso nel senso che «per il concorrente esterno  i  parametri  per
superare la presunzione non coincidono con la rescissione  definitiva
del vincolo associativo, ma comportano una prognosi  in  ordine  alla
ripetibilita' o meno della situazione che ha dato luogo al contributo
dell'extraneus alla vita  della  consorteria»  (vedi  Cass.  Sez.  6,
Sentenza n. 32412 del 2013). 
    Quanto da ultimo riportato offre  una  ulteriore  conferma  della
necessita' di  distinguere,  anche  ai  fini  della  valutazione  del
profilo cautelare,  la  posizione  del  partecipe  alla  associazione
criminosa rispetto a quella  del  concorrente  esterno;  anche  sotto
questo profilo, infatti, la  posizione  del  concorrente  esterno  si
rivela non equiparabile a quella dell'associato  alla  organizzazione
criminale, in relazione al quale la presunzione  delineata  dall'art.
275, comma 3, cod. proc. pen. risponde, come si e' detto, a  dati  di
esperienza generalizzati. Le affermazioni  sopra  riportate,  proprio
laddove  sottolineano  la  diversita'  dei  parametri  necessari  per
superare la presunzione di cui all'art. 275 comma 3  c.p.p.,  offrono
lo spunto per far ritenere  che  anche  nell'alveo  dell'applicazione
dell'art. 416-bis c.p. deve escludersi  che  vi  sia,  per  tutte  le
fattispecie concrete verificabili, una congrua "base statistica" alla
presunzione considerata, rendendo  ragionevole  la  convinzione  che,
nella generalita' dei  casi;  le  esigenze  cautelari  derivanti  dal
delitto in questione non possano venire adeguatamente fronteggiate se
non con la misura carceraria. 
    Diversamente, si finirebbe con il parificare sotto il profilo del
disvalore  sociale   e   giuridico   manifestazioni   delittuose   da
considerarsi, per le ragioni sopra descritte, in  maniera  differente
sia con riferimento alla loro portata criminale sia  con  riferimento
alla  pericolosita'  dell'agente,  circostanza   che   attiene   alla
violazione dell'art. 3 Cost.; verrebbe, in altri  termini,  sottratto
al giudice il potere di adeguare la misura al caso concreto, sicche',
in violazione del principio di uguaglianza, la norma si  risolverebbe
nel parificare con una  uguale  risposta  cautelare  situazioni  che,
sotto il profilo oggettivo e  soggettivo  devono  essere  considerate
diversamente. Inoltre, dalla lettura combinata degli artt.  13  e  27
Cost. emerge l'esigenza di circoscrivere allo strettamente necessario
le misure  limitative  della  liberta'  personale,  attribuendo  alla
custodia in carcere il connotato  del  rimedio  estremo,  laddove  la
norma censurata  stabilirebbe  un  automatismo  applicativo  tale  da
rendere inoperanti i criteri di proporzionalita' e di adeguatezza. 
    Alla stregua di tutte le  argomentazioni  sin  qui  svolte,  deve
conclusivamente dichiararsi rilevante la  questione  di  legittimita'
costituzionale dell'art. 275, comma 3, secondo periodo, del codice di
procedura penale, come modificato dall'art. 2  del  decreto-legge  23
febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica
e di contrasto alla  violenza  sessuale,  nonche'  in  tema  di  atti
persecutori), convertito, con modificazioni, dalla  legge  23  aprile
2009, n.  38,  nella  parte  in  cui  -  nel  prevedere  che,  quando
sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto  di  cui
all'art. 416-bis del codice penale (reato contestato  nella  concreta
fattispecie), e' applicata la custodia cautelare  in  carcere,  salvo
che siano acquisiti elementi dai quali  risulti  che  non  sussistono
esigenze cautelari - non fa salva, altresi', l'ipotesi in  cui  siano
acquisiti elementi specifici, in  relazione  al  caso  concreto,  dai
quali risulti che le esigenze cautelari  possono  essere  soddisfatte
con altre misure. 
    Va precisato che la norma appare essere, per i profili enunciati,
viziata da illegittimita' costituzionale  in  relazione  ai  seguenti
articoli   della   Costituzione:   art.   3,   per   l'ingiustificata
parificazione della posizione del partecipe alla associazione mafiosa
con  quella  del  concorrente  esterno  nonche'   per   l'irrazionale
assoggettamento ad un medesimo regime cautelare delle diverse ipotesi
concrete riconducibili ai paradigmi punitivi  considerati;  art.  13,
primo comma, quale referente fondamentale del regime ordinario  delle
misure cautelari privative della liberta' personale; art. 27, secondo
comma, con riferimento all'attribuzione alla coercizione personale di
tratti funzionali tipici della pena. 
    A norma dell'art. 23 della legge  11  marzo  1953,  n.  87,  deve
dichiararsi  la  sospensione  del  procedimento   e   deve   disporsi
l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale,  ferma
restando la misura cautelare in atto. La Cancelleria provvedera' alla
notifica di copia della presente ordinanza alle parti in causa  e  al
Presidente del Consiglio dei ministri  ed  alla  comunicazione  della
stessa ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.